Questa è una storia terribile. Per tanti motivi. Innanzitutto, perché è la storia di un mostro. Il mostro di Roma.

 

Di un pedofilo, stupratore e assassino di bambine. Una storia accaduta non in qualche metropoli americana, né a Londra; ma nei rioni di Roma: e questo, per noi italiani, non fa che accrescerne l’orrore.

Una storia terribile, sì; perché ha distrutto la vita di un uomo innocente. Una storia dalla sconfortante e macabra morale, che fa quasi pensare a un romanzo, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, del grande Carlo Emilio Gadda, in cui lo scrittore racconta dell’indagine che il commissario Ciccio Ingravallo conduce per giungere alla cattura di un feroce assassino: un giallo, che però resta insoluto, quasi a significare la sconfitta del raziocinio nei confronti dell’astrusa realtà che ci circonda, dove tutto, davvero, è possibile.

La città che fa da sfondo a questa storia è una Roma molto diversa da quella di oggi: è una Roma “a misura d’uomo”, che ha il suo cuore pulsante nei rioni storici, spesso quartieri popolari, lambiti dalle campagne circostanti; una città che si attraversa a piedi, al massimo in bici, o in botticella, lontana dal caos e dal trambusto dei giorni nostri; una città che ha visto da poco la “marcia” delle camicie nere, preludio alla dittatura di Mussolini.

È il 4 giugno 1924. Sono circa le 20 e Bianca Carlieri, 3 anni, sta giocando con le sue amichette in via del Gonfalone, dove abita.

All’improvviso, le si avvicina un uomo vestito elegante, col cappotto grigio – come dichiarano le altre bambine -, che le promette delle caramelle. Il tizio la prende così per mano e se la porta via: nel nulla.

Diversi testimoni, quella sera, videro un uomo simile alla descrizione fatta dalle piccole percorrere insistentemente le vie del rione. Elvira Ferroni, una dei testi, riferisce addirittura che, verso le 19.30, poco lontano da lì, in piazza Sforza Cesarini, aveva notato un individuo di statura media, abito grigio e cappello nero, con i baffi, che “dava a parlare” alle bambine che incontrava per strada, e che a un certo punto avrebbe cercato di portarsi via, prendendola per mano, la nipote di Elvira, Angela, di 2 anni: ma Elvira l’aveva fermato, strappandogli la bambina, e l’aveva preso a male parole; lui, imbarazzato – o spaventato – si era allontanato.  

La mattina dopo la scomparsa della piccola Bianca, verso le 11, qualcosa attira l’attenzione di Maria Durante, che sta raccogliendo la cicoria lungo la ferrovia Roma-Ostia: dei fogli di giornale gettati sull’erba, attorno a cui gironzolano alcuni maiali. Maria si avvicina per guardare meglio. Nota che c’è qualcosa sotto i fogli: il corpicino esanime di Bianca, completamente denudato. La bimba è stata violentata per poi essere soffocata.

Roma precipita nel panico. La polizia si attiva, cercando tra i pregiudicati per delitti sessuali, i malati mentali, i vagabondi; vengono inoltre fermati diversi uomini, tutti vestiti di grigio e con i baffi.

Intanto, una vera e propria follia collettiva s’impossessa dell’Urbe: da ogni rione di Roma spuntano testimoni che giurano di aver visto il probabile assassino, un uomo elegante con i baffi.

Ma sono troppi, e le loro dichiarazioni spesso divergono: non si capisce quale sia l’età del misterioso individuo – chi lo dice trentenne, chi quarantenne, ecc. –, né come precisamente si vesta – gli abiti eleganti che indossa cambiano colore a ogni descrizione –, né tantomeno come porti i baffi. Potrebbe, insomma, essere chiunque.

Ma andiamo avanti. È il pomeriggio del 24 novembre 1924. Sono le 15.30, e a piazza San Pietro c’è un gruppetto di bambine che gioca a nascondino. Poco distante, sedute presso il colonnato della basilica, ci sono due donne, due amiche che chiacchierano: Virginia Pelli e Assunta Brugnetti.

Tra le bimbe c’è Rosina, una delle figlie di Virginia, 6 anni. A un certo punto la donna, tornata a guardare verso la piazza, non vede più la figlioletta. La cerca tra le colonne; ma non la trova.

Rosina non c’è. È svanita nel nulla.

La mattina seguente, molto presto, all’alba, un operaio, Riccardo Papini, sta attraversando un prato presso via Balduina (all’epoca detto Prataccio, pare perché ritrovo, nottetempo, di malavitosi) per andare a lavorare. A un certo punto, tra i rovi, intravede qualcosa. Qualcosa di strano.

Si avvicina: è il corpo seminudo e straziato di una bambina. È Rosina, proprio lei. Il mostro l’ha violentata e poi strangolata. Vicino al suo corpo è rinvenuto un fazzoletto bianco, su cui sono cucite le iniziali R e L.

Anche nel caso del delitto Pelli spuntano fuori due testimoni. Uno è Alfredo Giacomini, il quale afferma che il 24 novembre, verso le 16, mentre attraversava il Prataccio, aveva visto un uomo col cappotto marrone e il cappello che tirava per un braccio una bambina per trascinarla con sé.

E poi ci sono tre lavandaie che verso le 16.30, mentre se ne stanno sedute su una collinetta del Prataccio, vedono un uomo sulla cinquantina, mediamente alto, vestito di marrone, probabilmente un “borghese”, che, con fare nervoso e circospetto, guarda verso dei cespugli di rovi (dietro i quali sarebbe stata poi trovata Rosina…); è un tipo strano, che fa gesti equivoci, osceni, e che, non appena nota la presenza delle donne, fugge via.

Intanto, la polizia presidia le strade della capitale con pattuglie e agenti in borghese, moltiplica gli arresti di pregiudicati e sospettati, fa retate in ambienti malavitosi o dubbi. Manca ancora qualche anno alle cosiddette leggi fascistissime, che avrebbero inaugurato la dittatura a viso aperto; ciò nonostante, le truci vicende occorse in quei mesi nei rioni romani minavano pericolosamente alcuni dei pilastri del fascismo, primo fra tutti la strenua difesa dell’ordine sociale: quel mostro di Roma andava fermato.

Passa un po’ di tempo. È la sera del 30 maggio 1925, ed Elsa Berni, 6 anni, viene mandata dalla madre a prendere dell’acqua presso una delle fontanelle del rione Borgo, dove abita. Ma quella sera ci mette più tempo del solito per tornare a casa. Troppo.

I genitori corrono a cercarla, vanno alla fontana; ma lì c’è solo il fiasco con cui era uscita, infranto.

Alle 5.30 del giorno seguente, sul Lungotevere Gianicolense, Pasquale Scacco, un netturbino, guardando distrattamente il fiume, nota che c’è qualcosa di strano adagiato sulla sponda. Discende l’argine in fretta, inquieto. Forse si sbaglia… e invece no: a terra c’è proprio lei, Elsa. Violentata e strangolata. Legato stretto intorno al collo, le trovano un fazzoletto su cui è cucita una C.

Anche stavolta qualcuno ha visto. Mezz’ora prima del rapimento di Elsa, per i vicoli di Borgo si aggira un’altra bambina, Anna Del Signore, 9 anni. Sta andando con la sorella più grande al cinema, ma a un certo punta la perde, e così scoppia a piangere.

Ma qualcuno – un uomo alto, sulla quarantina, con i baffi, cappello nero e occhiali, come riferirà Anna alla polizia – le si avvicina e cerca di tranquillizzarla; si offre, infine, di accompagnarla lui stesso al cinema, tenendola per mano.

Ma, mentre percorrono i vicoli di Borgo, Anna intuisce che l’uomo ha brutte intenzioni. Così cerca di fuggire e, dopo qualche tentativo, riesce a divincolarsi dalla presa del bruto e a scappare.

Purtroppo, però, non è ancora finita. Il 12 marzo 1927, verso le otto di sera, Armanda Leonardi, 5 anni, è in piazza del Fico, nel rione Ponte, ad aspettare che tornino i genitori. Poco distante, il fratello maggiore, Francesco, undici anni, sta giocando con gli amici.

Solleticata dalle sue fantasie di bambina, Armanda si è fatta dare da Francesco la cinta dei pantaloni e se l’è allacciata attorno alla vita. Quando, dopo un po’, il ragazzino torna verso la piazza, non vede più la sorella. La cerca, la cerca; ma non c’è. È scomparsa.

Il suo corpicino martoriato, abbandonato su un prato dell’Aventino, presso il Circo Massimo, verrà ritrovato da un passante all’alba del giorno dopo, la mattina del 13 marzo. L’assassino l’ha violentata e poi l’ha strangolata. Con la cintura del fratello. Vicino al cadavere, brandelli di carta bruciacchiata, resti di pagine stampate che, secondo i rilievi, recano parole in inglese.

La città è sconvolta, il duce è furioso, la polizia è dappertutto: si arriva al punto di mettere una taglia di 50.000 lire dell’epoca – circa 40.000 euro di oggi – sulla testa del mostro di Roma.

Ma il 2 maggio del 1927, finalmente, succede qualcosa: viene arrestato un tizio. Gino Girolimoni, 38 anni. Uno che fa il mediatore – cioè procaccia cause d’infortunio o di morte accidentale ad avvocati che conosce.

Perché proprio lui?  Perché Olga Naticchiati, 13 anni, cameriera presso la casa dell’ingegner Dante Pacciarini, in via Tibullo, a Prati, sarebbe stata molestata circa un mese prima da Girolimoni.

L’uomo, che abitava lì a due passi, in via Boezio, avrebbe tentato di adescarla più volte e, infine, le avrebbe mostrato i genitali. C’è un’altra ipotesi, però. Pare che Girolimoni fosse notoriamente un dongiovanni, e che Cecilia, la moglie dell’ingegnere, fosse una bella donna: può darsi che Gino avesse tentato di avvicinare Olga non perché pedofilo, ma in quanto interessato alla “padrona” della ragazzina.

Del resto, sarà lei stessa, nella sua testimonianza, a parlare di un biglietto che Girolimoni cercò di rifilarle: c’era una relazione tra Girolimoni e Cecilia, quindi? Non lo sapremo mai.

Certo è che la ragazza, spaventata, avvertì dei tentativi di adescamento l’ingegner Pacciarini, che dunque, potrebbe aver mangiato la foglia sul probabile tradimento della moglie e usato Olga come strumento della sua vendetta: magari, inducendola a denunciare Girolimoni… Pacciarini, comunque sia andata, si rivolge a un suo amico, il signor Giampaoli, che ha un fratello brigadiere: Giovanni Giampaoli pedina Girolimoni per giorni e, infine, il 2 maggio 1927, lo fa arrestare.

9 maggio. È il giorno della nemesi. I giornali gridano a gran voce che l’incubo è finito: il mostro di Roma è stato finalmente assicurato alla giustizia. È lui il mostro di Roma, Gino Girolimoni, per ora in carcere a Regina Coeli. In casa sua, la polizia trova vari “indizi”: fotografie in cui appaiono spesso bambine – in una compare addirittura il punto in cui era stato ritrovato il corpo di Elsa Berni; cioccolatini e caramelle, che Gino avrebbe usato per gli adescamenti; indumenti macchiati di sangue.

Soprattutto, vari testimoni: la piccola Anna Del Signore lo riconosce come il suo rapitore; Assunta Brugnetti lo identifica come un tale col cappotto marrone che, poco prima della scomparsa di Rosina, si aggirava in piazza San Pietro; Pasqua Roma è sicura di aver visto Girolimoni aggirarsi per Borgo proprio il giorno del delitto di Elsa Berni.

Spuntano, infine, alcuni ex-commilitoni di Girolimoni – che aveva combattuto nella prima guerra mondiale – i quali lo accusano di essere l’autore di crimini raccapriccianti ai danni di minori (stupro e omicidio) perpetrati in Veneto durante la Grande Guerra, avvalorando la tesi che fosse il mostro di Roma.

Ma sono indizi validi? No.

Le foto che ritraggono bambine, i cioccolatini e le caramelle, le macchie di sangue sugli abiti, le accuse di infanticidio, come tanti altri indizi raccolti contro Girolimoni, possono infatti essere interpretati facilmente in altri modi: chiunque può ritenere grazioso fotografare bambine, essere goloso di caramelle e altre leccornie, ferirsi e sporcare di sangue i propri indumenti.

Per quanto riguarda il presunto coinvolgimento nello stupro e omicidio di due bambine durante la guerra, i testi riconobbero Girolimoni solo da una fotografia. E poi, ci sono i baffi, che Girolimoni non porta al momento dell’arresto: se li è tagliati per non farsi riconoscere? Eppure, sembra che l’uomo non abbia mai portato i baffi… Allora i testimoni? Certo, ce n’erano diversi: ma erano davvero attendibili?

Francamente, poco contava. Allora la giustizia prevedeva il metodo inquisitorio, dove le prove contro qualcuno potevano essere prodotte anche durante l’interrogatorio di polizia oltreché nella fase istruttoria. E al regime serviva un colpevole per liberarsi del mostro di Roma, a tutti i costi.

Gino Girolimoni resta pertanto rinchiuso a Regina Coeli; intanto, per via del feroce killeraggio perpetrato contro di lui dai giornali, diventa “er mostro”.

Non per tutti, però. Sì, perché mentre Girolimoni è in carcere, fa la sua comparsa in questa storia Giuseppe Dosi, un commissario del Ministero degli Interni, che si è spesso distinto per aver svolto vari incarichi internazionali, delicati e rischiosi. Il commissario ha seguito la faccenda del mostro di Roma: è una storia che lo colpisce, tanto che vorrebbe svolgere qualche indagine in proposito, anche se non è lui a occuparsi del caso.

Mentre l’idea dell’investigazione ufficiosa gli ronza per la testa, alla Questura di Roma arriva una segnalazione dall’isola di Capri. È successo che un pastore anglicano, Ralph Lyonel Bridges, 71 anni, inglese, è stato arrestato per aver violentato una bambina di 9 anni, Patricia, nel giardino del Grand Hotel Quisisana. Una testimone, che ha visto Bridges venir fuori da dietro il cespuglio dove aveva appena commesso la violenza, lo segnala alla polizia.

Il giorno dopo, comincia a seguirlo; finché Bridges non incontra di nuovo la piccola Patricia e, preso da un impulso irresistibile, tenta di violentarla ancora: allora gli agenti intervengono e lo arrestano. Pensando ad un collegamento con i delitti del mostro di Roma, i funzionari di Capri avvertono la questura dell’Urbe. 

Brydges, alto poco più di un metro e settanta, capelli e baffi bianchi, che dimostra molto meno dell’età che ha, è in Italia dal 1923: è domiciliato a Roma, in via Po; nell’Urbe è stato, fino a poco tempo prima, cappellano della Holy Trinity Church di via Romagna. Troppe coincidenze, pensa Dosi. Vuoi vedere che…

Il commissario non perde tempo. Con l’appoggio dell’allora Ministro degli Interni, Arturo Bocchini, inizia una nuova indagine, parallela a quella della Questura. Indagine autorizzata da Mussolini in persona: Girolimoni è in galera, certo; ma tutte le piste devono essere battute.

Dosi comincia così a rileggere le carte dell’inchiesta. Da cui, come si aspettava, vengono fuori vari indizi contro Brydges. I delitti, per esempio: si sono svolti in un arco cronologico compreso tra la partenza e l’arrivo di Bridges in Italia.

C’è, poi, il fazzoletto ritrovato vicino al corpo di Rosina Pelli, che porta ricamate le iniziali R e L: Ralph Lionel? E ci sono quei resti bruciacchiati di un periodico che pare essere stato stampato in inglese, trovati vicino al cadavere di Armanda Leonardi: Lydia, la cameriera del pastore, testimonia che il sacerdote riceveva cataloghi di libri inglesi.

Ma c’è tanto altro: stando alle proteste di alcune madri che frequentavano la Chiesa di via Romagna, ad esempio, Brydges aveva atteggiamenti morbosi e sconci nei confronti delle loro bambine.

E poi c’è Cesare Olschki, un teste che afferma di aver visto, una mattina, un uomo molto somigliante al reverendo aggirarsi presso la zona dove, il giorno dopo, sarebbe stato trovato il cadavere di Armanda Leonardi. Mesi dopo il delitto, Olschki viene chiamato a riconoscere Girolimoni: non è lui.

Frattanto, in febbraio, accertata l’ambiguità delle prove e la vacuità delle testimonianze prodotte nei confronti dell’imputato, i giudici prosciolgono Girolimoni, che l’8 marzo 1928 viene rilasciato. Il marchio del mostro, però, lo perseguiterà a vita. Nell’agosto del 1931, esasperato, sfregia con il rasoio un tale Alfredo Fedele, barista pregiudicato, che lo additava continuamente come l’assassino.

È un episodio che rende bene l’inferno in cui si è tramutata la sua vita.

Gino Girolimoni muore il 19 novembre 1961. Ai suoi funerali parteciperà anche Giuseppe Dosi.

Ma torniamo a noi. Nel febbraio del 1928, il commissario Dosi, coadiuvato dal giudice Marciano – che, insieme ad altri magistrati, smonterà le accuse formulate dalla polizia nei confronti di Girolimoni – ha pronta la sua mossa contro Brydges.

Il reverendo si trova al momento in Sud Africa; ma Dosi è paziente, aspetta: finché una lettera del consolato italiano lo avverte che Brydges e sua moglie si sono imbarcati su un piroscafo che attraccherà a Genova. Il 13 aprile 1928 Dosi sale a bordo e arresta Brydges.

Dalla perquisizione della sua cabina saltano fuori altri indizi: vari fazzoletti da donna da cui è stata strappata l’iniziale, la C di Caroline, moglie del sacerdote (il fazzoletto trovato attorno al collo di Elsa Berni portava ricamata una C…); un taccuino, su cui è appuntata la parola Charlieri

È lui il vero mostro? Secondo la Corte d’Appello di Roma, no: il 23 ottobre 1929 Ralph Lionel Brydges viene prosciolto. Ufficialmente, perché alcune delle prove raccolte da Dosi si prestano ad interpretazioni tendenziose, mentre altre sono invece alla stregua di semplici ipotesi.

Ma qualcuno afferma che il proscioglimento del reverendo fu solo il prezzo che il regime dovette pagare per aver cercato di incastrare l’ambasciatore inglese a Roma raccogliendo prove su una possibile relazione extraconiugale della consorte: e tra Italia e Inghilterra i rapporti sono all’epoca tesi, per la questione delle mire italiane sull’Etiopia…

Del resto, anche a Dosi vengono messi i bastoni tra le ruote. Nel 1939, dopo aver subito vari trasferimenti, viene confinato a Vasto, in Abruzzo, dove scriverà le sue memorie: in un estremo tentativo di tornare alla ribalta, invia una copia del memoriale a Mussolini.

È la fine: sospeso dal servizio, Dosi verrà arrestato e portato a Regina Coeli; poi, grazie all’esito “positivo” di una perizia psichiatrica, viene addirittura trasferito al manicomio di Santa Maria della Pietà, dove resterà per più di un anno. Cala il sipario.

Chi è il mostro di Roma? Non lo sapremo mai, troppo tempo è trascorso. Anche sulla colpevolezza di Brydges c’è chi oggi, attraverso nuove indagini sul caso, è giunto a sollevare non pochi dubbi. Tuttavia, del mostro di Roma si parla ancora oggi. E chissà come se ne parlò allora, nei vicoli dei rioni, in quei lontani anni ’20 del secolo passato, pervasi dall’angoscia, dalla paura, dalla rabbia.

Restano, di questa maledetta storia, i versi di una canzone popolare che girò per Roma negli anni dei delitti:

Il quattro giugno a sera / una bambina di quattro anni / giocava alla fiera / giocava allegra con altri bambin / successe un guaio di un assassin.

Forse la cantavano anche i bambini che scorrazzavano per le stradine di Borgo, di Ponte. Versi tetri, che ricordano un po’ la filastrocca canticchiata da un gruppo di bambine nel celeberrimo film Nightmare on Elm Street.

Ma questa storia del mostro di Roma non è un film; né tantomeno siamo nell’America di Wes Craven, o nella Londra di Jack lo Squartatore; siamo a Roma, negli anni ’20, nei primi anni del regime fascista: anni tanto rimpianti da certi nostalgici per il rigore morale e l’ordine sociale che vi avrebbero regnato…

di Salvatore Napoli

 

Leggi la recensione di Psycho scritta da Salvatore Napoli. 

Leggi l’intervista rilasciata da Salvatore Napoli, pioniere di un nuovo alternativo modo di scrivere l’horror, fra linguaggio classico e realismo dell’inconscio post-moderno.

 

 

 

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