47: da un numero nefasto nasce la storia del Mostro di Nerola.
Quando ci si occupa di una storia realmente accaduta, la curiosità – a volte quasi ossessiva – che essa suscita in colui che è andato a ripescarla per qualche motivo, è tale da costringerlo a immaginarsi tutto il possibile di quella storia.
Bisogna così cercare di vedere, ricostruendoli con la fantasia, i luoghi dove si sono svolti i fatti con gli occhi di chi c’era, dai protagonisti alle semplici comparse.
Questa storia comincia, appunto, con una comparsa. È un uomo su una bicicletta a motore, un Cucciolo – così si chiamava un motore da 48 cc che si applicava alle biciclette per trasformarle in ciclomotori –, che percorre la via Salaria in direzione Rieti.
All’altezza di Nerola – un borgo medievale sormontato da un incantevole castello appartenuto alla famiglia romana degli Orsini –, l’uomo si accorge però di aver forato. È ormai buio, e non passa nessuno. Forse, però, poteva andare peggio; sì, perché oltre la carreggiata, adesso, il ciclista intravede un podere.
È una casupola. Forse c’è qualcuno che può aiutarlo.
Allora, portando a mano la bici, abbandona la via Salaria al km 47, s’inoltra nel podere e raggiunge l’entrata della fatiscente abitazione. Poi, bussa.
Ai primi di maggio del 1947 il maresciallo Evaristo Acquistucci, comandante di una stazione dei carabinieri nei pressi di Nerola, è seduto nel suo ufficio, e sta leggendo attentamente delle carte.
Si tratta di un fascicolo che riguarda una persona scomparsa qualche giorno prima, il 3 maggio; tale Alessandro Daddi, di Roma, impiegato al Ministero della Difesa. La madre e altri familiari lo aspettavano per sera a Contigliano, vicino Rieti, dove l’uomo si stava recando con il suo Cucciolo; ma Alessandro, lì, non è mai arrivato.
Il maresciallo comincia così a cercare informazioni; finché scopre che Alessandro Daddi è stato visto per l’ultima volta sulla Salaria, presso Nerola; più precisamente, al km 47
47. Un numero che al maresciallo Acquistucci non piace per nulla. Per due ragioni.
Una di queste è che il folklore popolare di Nerola attribuisce al numero 47 una sorta di potere malefico.
Tutto ebbe inizio (guarda caso…) quarantasette anni prima, nel lontanissimo 1900, quando al km 47 della Salaria venne brutalmente ucciso un uomo di quarantasette anni (ancora!), Antonio Rubino. Da allora, il km 47 della Salaria è un posto maledetto.
La seconda ragione, forse anche più inquietante della prima, è che al km 47 della via Salaria, in una baracca costruita su un podere, ci abita un uomo che a Nerola conoscono tutti: Ernesto Picchioni.
Un contadino molto povero, che coltiva un piccolo pezzo di terra occupato tre anni prima. Picchioni si è trasferito a Nerola solo nel ’44 (è di Ascrea), con la moglie, Filomena Lucarelli, la madre di lei, Clorinda, e quattro figli: Angelo, Carolina, Valeria, Gabriella.
Già l’essere un “forestiero”, uno venuto da fuori, basta a far nascere voci maligne tra i paesani. Ma Picchioni queste voci le alimenta ampiamente. Innanzitutto, è il suo aspetto a incutere timore: gira sempre con un cappellaccio calato sugli occhi, ha sempre uno sguardo torvo, un’espressione arcigna. Lo chiamano “Brutta faccia”. Ma anche “Spara facile”, perché pare abbia avuto diverse discussioni con i suoi compaesani, e alcune le abbia risolte imbracciando il fucile.
È un violento, insomma, una testa calda.
Di lui si dice che non abbia voglia di lavorare e che sia un poco di buono: un ladro.
Picchioni è sospettato di alcuni furti avvenuti in paese; furti di bestiame, ma anche di indumenti, di biciclette, persino di cani.
Lo stesso podere in cui risiede l’ha occupato abusivamente, aggredendo il proprietario assenteista, tornato a reclamarlo, e cacciandolo dal fondo: per questo episodio, è stato anche in galera; solo per qualche giorno, però, perché – come dirà sotto interrogatorio – alcuni partigiani (o semplici militanti) sarebbero intervenuti in suo favore e l’avrebbero fatto liberare.
Infine, ciliegina sulla torta, Picchioni è un convinto militante comunista: e all’epoca poteva significare, agli occhi di molti, aver taccia di mezzo delinquente, di sovversivo; poteva essere, quindi, un’ulteriore causa di emarginazione sociale.
Ernesto, dunque, malelingue a parte, non è uno stinco di santo. Questo, il maresciallo Acquistucci lo sa.
Sa che l’uomo è armato; ma sa anche che la detenzione di armi da parte di civili in quel periodo è la norma: una guerra lunga e sanguinosa si è da poco conclusa, e non è facile tornare alla normalità.
Sa che Brutta faccia ha occupato il fondo abusivamente, è stato proprio Acquistucci ad arrestarlo; ma sa anche che le occupazioni di terre sono frequenti in quel periodo nell’agro romano e viterbese.
Sa che a Nerola ci sono stati diversi furti, ultimamente, e che in paese molti sospettano di lui; ma sa anche che, da qui a pensare che c’entri qualcosa con la scomparsa di Alessandro Daddi, ce ne passa.
Non ci sono prove contro Picchioni: l’inchiesta langue per un po’ di tempo.
Poi, però, qualcosa accade. Acquistucci, che evidentemente non ha alcuna intenzione di lasciar cadere il caso nel dimenticatoio, continua a cercare, a far domande; finché, a un tratto, qualcuno gli dice di aver visto un contadino scorrazzare sulla Salaria con un ciclomotore; un Cucciolo.
Pare sia proprio lui: Ernesto Picchioni. Ma se è così povero che la moglie si veste di stracci, come fa a permettersi un motorino? La domanda sorge spontanea nella testa di Acquistucci. Forse, quel Cucciolo…
Così, Picchioni viene interrogato. Ma niente.
Il Cucciolo? Glielo hanno regalato i compagni di Monterotondo, così può spostarsi più facilmente da un posto all’altro. Il maresciallo non la beve, ma non può trattenere Brutta faccia.
Poi, il 23 ottobre un nerolese dice ad Acquistucci che la moglie del Picchioni lo avrebbe incaricato di chiedere ai carabinieri di arrestare il marito, colpevole di gravi reati: crimini di cui lei stessa, a cose fatte, avrebbe parlato agli inquirenti.
Il maresciallo intravede una speranza. Cerca di far tornare Spara facile in caserma, con la scusa di doverlo sentire per una pratica relativa a un risarcimento per danni di guerra. Ma lui non si presenta.
Il militare non demorde: si rivolge al maresciallo maggiore Giuseppe Grisi, comandante della stazione di Palombara Sabina e suo superiore, e gli chiede di poter eseguire alcuni appostamenti lungo la Salaria, per arrestare Ernesto quando è fuori casa.
Il 26 ottobre, il destro è offerto al maresciallo dal matrimonio di una cugina di Spara facile, a cui costui è invitato.
È il momento giusto: Picchioni deve recarsi a Castel di Tora, ne avrà per molto. Acquistucci penetra così nella sua abitazione. In casa ci sono tutti; ma al maresciallo interessa in particolar modo Filomena, la moglie: la mette al torchio, dicendole che ormai i carabinieri sanno tutto, che se non racconterà la verità sarà peggio per lei; la donna, però, non cede.
Poi, improvvisamente, il figlio Angelo, 14 anni, scoppia in lacrime. E grida qualcosa come: “Mamma, l’hanno saputo!”.
A questo punto, Filomena non può più mentire: presa dal panico, comincia a dire davanti ai carabinieri che adesso Brutta faccia ammazzerà lei e tutta la loro famiglia, che gliel’aveva detto di non dire niente a nessuno.
Filomena sta per confessare, Acquistucci lo sa. È per questo che conduce la donna, insieme al resto della famiglia, in caserma: qui la donna si sentirà sicura; e, finalmente, parlerà. Intanto, alla sera, di ritorno dal matrimonio, Ernesto Picchioni viene arrestato (anche se qualcuno dice che ciò avvenne solo il pomeriggio seguente).
Le accuse: furto e omicidio. È ubriaco fradicio, ma quando vede i carabinieri capisce tutto: si dimenerà come un animale mentre lo portano via.
Che n’è stato di Alessandro Daddi? Questo chiede il maresciallo Acquistucci a Filomena, ormai al sicuro, in caserma, insieme ai familiari. La donna, finalmente, parla.
Ciò che racconta, però, va al di là di qualunque immaginazione, di qualsiasi ipotesi. Ecco adesso, forse, non è il caso di immaginare cosa hanno provato il maresciallo e i suoi uomini, quando Filomena Lucarelli gli raccontò cosa successe quella sera del 3 maggio, al km 47 di via Salaria.
La comparsa non è più una comparsa, adesso. È un uomo con nome e cognome, con una storia, con una famiglia.
Si chiama Alessandro Daddi, è un impiegato, e sta andando al paese della madre; poi, quella gomma. Sta bussando, adesso – la sera del 3 maggio 1947 –, alla porta di casa Picchioni.
Dopo qualche istante, l’uscio si schiude: sulla soglia, appare Ernesto, e Alessandro, gli dice che ha un guasto al motorino, e se potesse, gentilmente, procurargli dell’olio e del mastice. Picchioni si mostra ospitale: fa entrare l’uomo e lo fa accomodare al tavolo della cucina; gli offre perfino da bere.
Non si accorge di niente, Alessandro Daddi. Picchioni lo tramortisce con una mazza sorprendendolo alle spalle; poi, gli taglia la gola con un coltello da cucina. Fruga il cadavere; ma non trova altro che qualche moneta.
Non è finita. Brutta faccia scava una fossa nel suo orto, per seppellirvi il corpo di Daddi.
Ma, trascinatolo fuori, si accorge che è troppo stretta; allora, con una sega, taglia via le gambe al cadavere, all’altezza del ginocchio. Poi, lo sotterra.
Ma c’è un ultimo dettaglio, degno di una fiaba nera, alla Barbablù. Quando tutto ciò avviene, Picchioni non è solo. Perché in casa, al km 47, ci sono tutti. Filomena, la madre, i figli. Che vedono tutto.
Da una porta socchiusa, la porta della stanza da letto, dove Picchioni, al momento in cui hanno sentito bussare, li ha costretti a nascondersi. Ernesto se ne accorge e urla: nel caso avessero osato parlare di quel romano capitato lì per caso, l’avrebbero pagata cara. Per loro, era pronta già la fossa, nell’orto.
La curiosità esasperata verso una storia – di cui s’è già detto –, e in questo caso la storia del km 47 di via Salaria è anche quella che porta indietro nel tempo con la mente, che propone le immagini del borgo medievale come poteva essere allora, nel ’47; le figure, i volti, ma soprattutto le voci dei suoi abitanti.
Cosa avranno pensato e detto i nerolesi quando hanno saputo che Picchioni era stato arrestato?
C’era da aspettarselo, Brutta faccia non è solo un ladro, ma anche un assassino. Dicono che ha ammazzato qualcuno. E che poi l’ha seppellito nell’orto. Per rubargli tutto, perché è un ladro.
Ma è talmente tanto inquietante che quell’assassinio, o, come forse pensa già qualcuno, quegli assassinii – forse ne ha ammazzati più di uno, chissà… – siano avvenuti proprio a quel maledetto km 47 della Salaria, che gli abitanti di Nerola si convincono ulteriormente di una cosa:
il km 47 è un posto malefico, dove succedono cose terrificanti.
Ed Ernesto Picchioni, l’assassino che ci abitava, non è un uomo; è un mostro. Il mostro di Nerola.
Il 30 ottobre 1947 Picchioni viene interrogato da un giudice del tribunale di Palombara Sabina; ma si dichiara innocente, nega tutti i crimini che gli sono imputati. Il maresciallo Acquistucci non si ferma lì.
La confessione di Filomena gli ha instillato un dubbio atroce: e se non fosse l’unico, Alessandro Daddi? Sì, perché Filomena ha detto al maresciallo che il marito aveva iniziato, dopo il loro arrivo a Nerola, a cospargere di chiodi la Salaria nei pressi della loro abitazione…
Comunque sia, Acquistucci fa qualche ricerca tra le denunce di scomparsa. E scopre qualcosa: il 5 luglio del 1944, un tale Pietro Monni, avvocato, di Roma, uscito in bici per una scampagnata con gli amici, sulla Salaria, scompare misteriosamente nel nulla. Anche lui, scoprirà il maresciallo, si era fermato proprio lì, al km 47.
Quante persone ha ucciso Ernesto Picchioni? Questo chiede il maresciallo a Filomena, interrogata nuovamente. Allora, la donna parla, racconta. Dice che è sicura che ne abbia ammazzato almeno un altro: è proprio Pietro Monni.
Ma è probabile che ce ne siano altri; diversi altri. E dove sono? Nell’orto.
Quando i carabinieri vi scavano, tutti scoprono che l’orrore è molto più grande di quanto si pensasse: non vengono fuori soltanto i cadaveri di Alessandro Daddi, riconosciuto dai fratelli, e di Pietro Monni, a cui l’assassino ha spaccato la mandibola con una mazzata e ha sparato due colpi di fucile per ucciderlo.
Ma i corpi di altre due persone: quello di un adolescente (15-16 anni) e quello di un uomo dai folti baffi, conservatisi anche dopo la putrefazione e dunque visibili.
Il movente? Derubarli, dice la moglie di Picchioni. È uno che beve, Ernesto.
Nell’orto, gli investigatori rinvengono anche scheletri di cani. Ecco allora dove sono finiti i cani rubati. Nell’orto di un serial killer. Più precisamente, quello che verrà riconosciuto come il primo serial killer italiano di sesso maschile dell’epoca contemporanea.
A Filomena non basta confessare le atrocità commesse da suo marito per restarne fuori.
All’arresto di Picchioni, la famiglia intera lo segue in carcere. Per i magistrati, sua moglie potrebbe anche essere stata sua complice. Per un po’, la donna e i bambini restano in carcere.
Poi, i sospetti su di lei e su un eventuale coinvolgimento di Angelo cadono. Lei, però, non ce la fa a tornare a vivere serenamente dopo tutto quello che ha passato: è emotivamente a pezzi. Così, in novembre, i tre figli più grandi, Angelo, Carolina e Valeria, vengono affidati ad un centro per ragazzi abbandonati.
Il 10 marzo 1949 comincia, dopo una lunga istruttoria, il processo ad Ernesto Picchioni, seguitissimo dal pubblico e dalla stampa: la storia del mostro di Nerola è ormai diventata di dominio nazionale. Poco prima di entrare in tribunale, durante gli interrogatori, Spara facile aveva finalmente confessato di aver ucciso Alessandro Daddi e Pietro Monni.
Ma non per derubarli. Per motivi politici. Volevano costringerlo a iscriversi al Partito d’Azione. Nella speranza di attenuanti, aveva tirato fuori anche un passato da partigiano: “Ho ucciso due soldati tedeschi”, aveva detto.
E al processo, davanti alla folla che gremisce l’aula di giustizia, confessa: oltre a Monni e Daddi, ha ucciso anche un ragazzo e un uomo con i baffi, anche loro in bicicletta al momento di incappare in Brutta faccia.
Non ricorda i loro nomi.
Quattro omicidi. Ma gli inquirenti pensano ugualmente che non stia dicendo tutto. Essi sono convinti che i suoi omicidi siano almeno otto. A Nerola, poi, pensano addirittura che siano molti di più.
Con la guerra che imperversava, chissà quanti ne ha uccisi impunemente, Brutta faccia. Fatto sta che i resti non si trovano. Dove li ha seppelliti Picchioni? Non si saprà mai.
Il 19 marzo arriva la sentenza: riconosciuto assolutamente sano di mente, Ernesto Picchioni, il mostro di Nerola, è condannato a due ergastoli e ventisei anni di carcere. È finita.
Dopo aver aggredito papa Giovanni XXIII, in visita al carcere di Civitavecchia (ma c’è anche chi parla di un’aggressione a Pio XII a Regina Coeli…), Spara facile è rinchiuso definitivamente nel carcere di massima sicurezza di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba. Nessuno della sua famiglia andrà mai a trovarlo.
Semmai qualcuno di loro fosse andato a fargli visita – dirà Picchioni – lo avrebbe ammazzato con le sue mani.
All’età di sessantasette anni, Ernesto Picchioni muore per attacco cardiaco. Urlò come un animale, diranno gli altri carcerati. È davvero la fine.
O forse no. Perché, anche se il mostro di Nerola è morto, la sua vicenda non muore con lui. Per certi aspetti, anzi, non si è ancora conclusa.
Per cominciare, nel 1954, mentre è in galera, Picchioni viene accusato di un altro omicidio. Quello di Mario Lucchesi, un autista. Costantino Fidanza, un amico di Mario, racconta ai carabinieri che un giorno, il 30 ottobre del 1945, mentre percorrevano la Salaria all’altezza di Nerola con i loro camioncini, hanno incrociato un tizio che chiedeva un passaggio.
Mario si era fermato e aveva fatto salire l’uomo a bordo: da questo momento, di lui si perde ogni traccia.
Anni dopo, Fidanza riconosce quell’uomo da una foto sui giornali: è Ernesto Picchioni, non ha dubbi. Ma dov’è il corpo di Lucchesi? Non sarà mai ritrovato.
Poi, c’è la storia di Carolina e Gabriella, le due figlie più piccole di Picchioni. Nel 1952 Carolina e Gabriella vivono nell’Istituto romano di San Giovanni Calasanzio; qui, proprio in quell’anno, arriva Robert Wilbraham Fitz Aucher, un magnate dell’acciaio: tra più di centocinquanta ragazze, sceglie proprio Carolina, 13 anni all’epoca.
Ma lei non vuole lasciare la sorellina lì; così, Aucher le porta via con sé entrambe, a Londra. Nel 1956, il magnate morirà per un infarto: non prima, però, di aver disposto nel testamento un lascito di due milioni di dollari alle sorelle Picchioni, come eredità.
La storia delle due sorelline farà scalpore, tanto che uscirà sulla rivista inglese Time nell’aprile del 1956.
Poi, c’è la perizia psichiatrica. È impeccabile? O, se venisse analizzata oggi, a distanza di sessant’anni, con approcci e mezzi moderni, si troverebbe qualcosa di nuovo?
Picchioni risultò sano di mente. Certo, era estremamente povero, avrebbe fatto qualsiasi cosa per qualche spicciolo. Ma è davvero così? Oppure c’è altro?
Sì, perché ci sono anche quei cani, ritrovati nell’orto. Perché uccidere dei cani? E poi c’è l’efferatezza dei delitti; quella che non ha impedito a Picchioni di segare via le gambe a un cadavere, e di fare chissà cos’altro.
Qualcosa di strano c’è, in questa vicenda, qualcosa di non completamente chiaro. Quella di Picchioni è una vicenda che va senza dubbio approfondita.
Infine, c’è quella casa. La casa al km 47 di via Salaria. Dopo la lettura della prima sentenza, confermata nei successivi gradi di giudizio, la stamberga del km 47 fu oggetto della collera popolare. I nerolesi la misero a ferro e fuoco, e quasi la distrussero.
Oggi, quei ruderi sono ancora visibili, al km 47, tra la vegetazione. E qualcuno dice che, anche a molti anni dalla truce vicenda del mostro di Nerola, presso le rovine della sua abitazione siano state celebrate messe nere e riti satanici. Nessuno, però, può confermare queste voci.
di Salvatore Napoli
Leggi anche l’articolo scritto da Salvatore Napoli sul Mostro di Roma.
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Sono uno scrittore sardo-sabino nato a Cantalice nel 1943. Il nome dell’avvocato romano Pietro Monni è quasi certamente di origine sarda. Vorrei sapere qualcosa di più su questa persona, se è possibile. Grazie in anticipo
Gentile lettore,
come spesso succede nel caso di storie truci come quella di Ernesto Picchioni, l’attenzione di chi scrisse, all’epoca, delle vicende del mostro di Nerola, si concentrò soprattutto sulla figura dell’assassino seriale, lasciando in ombra quelle delle povere vittime: se si pensa, poi, che a parlare di Picchioni fu una stampa liberata solo da qualche anno dalla censura fascista, è facile capire l’attrazione quasi morbosa dei giornalisti del tempo verso personaggi contorti e spietati come Picchioni e, nel contempo, l’oblio a cui vennero condannate le vittime, fatta eccezione per il loro nome, la loro professione e altri dati essenziali.
Ovviamente, l’articolo che lei ha letto è stato scritto consultando fonti “secondarie”, per quanto veritiere (libri, articoli, documentari); nessuno però le impedisce di consultare le emeroteche dell’area romano-sabina in cerca di giornali dell’epoca, dove magari può trovare qualche informazione utile, e soprattutto di effettuare una ricerca negli archivi storici della zona (ad esempio, nei tribunali, nei municipi, ecc.): il caso di Picchioni fece scalpore, all’epoca, perciò è probabile che qualche fascicolo o qualche incartamento inerente al caso possa essersi salvato dalle distruzioni periodiche. Cordiali saluti, Salvatore Napoli